17 gennaio 2010

Mbour- Sokone A/R

Alle quattro del pomeriggio di un venerdì qualunque, partiamo per Sokone, una cittadina a tre ore da qui, per essere presenti alla ormai ennesima riunione con i partner. A dir la verità, per me non è proprio lavoro, questi sono i partner del progetto sul quale è impegnato il mio collega, ma in quanto assemblea generale il grande capo ha pensato di inviare più rappresentanti, ed io, con molta ingenuità ho colto l’occasione di passare un fine settimana fuori, come dire , al balzo. Dopo appena mezz’ora di viaggio mi accorgo che non deve essere stata una genialata, il caldo è soffocante e nella famosa scassarola che ci ostiniamo a chiamare ancora macchina uno dei finestrini non si apre. Con noi Babou Diouf, un collaboratore della CPS, ci tiene compagnia. Si parla del più e del meno e così attraversiamo la strada nazionale, l’ultima strada che percorriamo degna di essere chiamata con questo nome ; da allora sarà lo slalom tra fossi, buche, voragini e crateri a farci compagnia, molta compagnia, visto che gli ammortizzatori della nostra macchina sembrano essersi arresi alla situazione. E pensare che non guidavo neanche. Quindi massimo rispetto e comprensione per il povero Clemente (la compassione la riservo per il ritorno perché il peggio deve ancora arrivare!!). Dopo aver abbandonato per così dire la strada asfaltata ci inoltriamo per un sentiero sterrato, vi assicuro un lungo sentiero, che spesso mi ha obbligato a coprire bocca e naso con un foulard per filtrare un po’ l’aria densa di polvere. Oltre il finestrino il nulla, e pure tutto. La natura, il tramonto, gli animali, la libertà. Gli ultimi kilometri sono i più lunghi, la macchina sembra voler cedere ma …..alla fine raggiungiamo la meta. Finalmente si scende da quell’aggeggio infernale, ci dissetiamo un po’ con l’acqua di Sokone, quell’acqua che non corrispondendo alla legge della fisica per cui l’H₂O debba essere insapore, lascia in bocca quel retrogusto un po’ sabbioso tipico di queste parti. L’accoglienza è stata calorosa, mi racconta Clemente che qui sono contenti di collaborare con noi. Ci spiegano dove vive la famiglia che dovrà ospitarci, prendiamo la macchina, e sorpresa sorpresa, mica poi tanto, non parte. Il meccanico è di fronte. A quanto pare è felice di rivederci, anche durante lo scorso viaggio ha avuto il piacere di riparare la scassarola. La sentenza è di morte a meno che non si cambi un pezzo da recuperare non so dove , quindi lasciamo la macchina lì per la notte e ci incamminiamo a piedi, zaino in spalla. Fortunatamente il tragitto non è molto lungo. Entriamo da un cancello, e percorriamo un piccolo vialetto, la prima impressione è che la famiglia non se la deve passare poi così male. Ndela la madre ci accoglie calorosamente, i figli anche, Clemente sembra essere di casa; dopo qualche battuta ci mostra le camere in cui dormiremo, una per i ragazzi l’altra per me. Il bagno è all’interno, devo passare per la camera dei ragazzi, ma va bene così, ci sono il water all’italiana e la doccia, cosa voglio di più. Una rinfrescatina e poi a mangiare. Sul tavolo il buon pane di Sokone, decisamente meglio di quello di Mbour, e un grande piatto, da cui ovviamente mangiamo tutti e tre com’ è d’abitudine, con insalata, pomodori, cetrioli e pollo grigliato. Ottimo. Ci intratteniamo a tavola a parlare con Babou, persona interessante, ci parla di quello che fa, del suo lavoro di formatore nel campo della ristorazione e di come sia impegnato nella società per combattere la mendicità dei bambini e promuovere lo sviluppo nel suo paese. E mentre sorseggiamo un tè senegalese, ci racconta delle sue esperienze all’estero. Non è facile trovare un senegalese che abbia viaggiato, molti non hanno mai lasciato il confine nazionale neanche per visitare la Gambia, un enclave di trecento kilometri praticamente interna al Senegal. La mia faccia quando assaggio il tè deve averlo colpito perché mi spiega che il primo assaggio è amaro, poi praticamente si rifà il tè con le stesse foglie e assume un gusto più dolciastro, e in effetti così è stato, il secondo bicchiere sembrava essere più piacevole. Ci racconta di aver studiato a Parigi, e sembriamo tutti e tre essere d’accordo sulla freddezza e riservatezza di questa città bellissima ma non proprio accogliente. Ci fa tante domande sull’Italia, sulla lingua, la cultura, la cucina, i valori, la famiglia, il ruolo della donna. E’ consapevole che fuori c’è un mondo, che è diverso, che ha pregi e difetti, ma che vale sempre la pena esplorare. A conoscerne di gente così (di ogni nazionalità!!!!!! A partire dagli italiani). Si fa tardi è ora di andare a letto, all’indomani c’è la riunione, dopo aver controllato che la macchina abbia ancora la forza di riportarci a casa. Ndela mi fa vedere come montare la zanzariera sul letto e mi mostra il ventilatore, ma la serata non è calda, un vento fresco e piacevole fa da contorno. Mi siedo un attimo sul letto, e il mio occhio cade sulla soglia della porta, decine di formiche, che dico formiche, formicone, iperattive. Inizio a fissarle quasi a volerle contare ma mi impongo di scacciare quell’immagine dalla testa altrimenti l’dea di ritrovarmele nel letto non mi farà dormire. Dopo aver indossato il pigiama, chiudo la zanzariera, prendo il libro che ieri ho iniziato a leggere, lo straniero di Albert Camus, anzi l’étranger, sto cercando di leggerlo in francese. Dopo un po’ smetto sono stanca, la torcia che stavo usando per leggere è puntata sul soffitto di lamiera, mi ricorda la baracca degli attrezzi di mio padre. Ci sarò entrata mille volte, ma mai avrei pensato di dormire in un posto come quello. Ma l’ospitalità di questa gente sembra cancellare ogni disagio, anzi io non sento nessun disagio, sembro anestetizzata dalla voglia di stare qui. L’indomani questa voglia vacillerà un po’ ma credo sia umano. Spengo la torcia e mi accorgo che alla mia sinistra c’è una porticina dalla quale arrivano delle voci, e allora che capisco che lì dentro c’è Ndela con tutta la sua famiglia. Ovviamente ci hanno ceduto le loro stanze, non ci sono quelle per gli ospiti. Il letto non è proprio dei più comodi, il materasso praticamente non esiste, due centimetri di spugna mi separano dalla rete o quella cosa dura che c’è sotto, ma questo non mi impedisce di riposare beatamente, data la mia proverbiale capacità di dormire in ogni posizione e situazione. Alle otto sono fuori per la colazione, ma sembra che la famiglia non abbia dormito; Ndela e le sue figlie trafficano dietro un muretto da cui non riesco a vedere cosa stiano facendo, Clemente mi suggerisce che c’è una cucina, lì in quel giardino, stanno preparando la colazione che ci serviranno di lì a poco. Tisana, acqua calda, latte in polvere, pane, una simil-nutella al gusto di arachidi e una frittata alle cipolle che con tutta la voglia che posso avere di integrarmi non riesco proprio a mangiare. Lo stomaco si ribellerebbe subito. Siamo pronti a ripartire alla volta della sede dell’incontro, il meccanico ci assicura che al termine la macchina sarà pronta, forse lui sapeva quello che noi ignoravamo, che sarebbe durato fino alle cinque del pomeriggio. Ovviamente ci incamminiamo a piedi, sarà stato un kilometro ma il sole lo fceva sembrare una traversata. Lì ci aspettano la presidente e qualche altro membro, mi presento, scambio qualche chiacchiera, sembrano simpatici. Ci accomodiamo sotto la grande tenda che hanno montato per l’occasione. Ndela è seduta di fronte a me. Mi suggerisce con un segno della mano, di spostarmi verso l’interno della tenda, ha ragione il sole già picchia ai bordi. La convocazione è per le 10, ma la piccola esperienza maturata mi dice che non comincerà a breve, dovrà arrivare ancora molta gente. L’ambientazione beduina farebbe pensare che stiamo aspettando Gheddafi, ma fortunatamente la giornata non è stata offerta dal governo italiano, quindi il pericolo è scampato!!. Dopo i discorsi ufficiali di apertura dei lavori, pazientemente tradotti in francese, ci imbattiamo in lunghi lunghissimi dibattiti in wolof che ovviamente non riusciamo a seguire, tanto più che la nostra attenzione è ormai annullata dal caldo infernale che sentiamo sotto la tenda. Finalmente distribuiscono acqua fresca. Qualcuno potrà pensare a comode bottigliette di plastica con quella famosa tecnologia chiamata tappo, ma costerebbe troppo e quindi qui l’acqua si distribuisce in bustine monodose….ebbene si!! Intanto i discorsi continuano, il caldo pure, e l’acqua dapprima fresca perde ogni suo fascino. I miei jeans e le mie scarpe da ginnastica non mi sembrano più una grande idea. Vado a cambiarmi all’interno, cerco di mettere qualcosa di più fresco, nella vana illusione di provare sollievo, fino a che il supplizio dei discorsi in wolof termina momentaneamente per la pausa pranzo. Prendiamo posto all’interno, a terra intorno al piatto insieme ad altre quattro persone mangiamo un ottimo Yassa poulet. Osservo affascinata il modo in cui, come in una danza di sole mani le nostre commensali mischiano il riso il condimento e il pollo prima mangiarlo. Avrei tanta voglia di posare quel cucchiaio, ma non ho il coraggio. Mangio il riso, le verdure, cerco di scartare le cipolle, sono davvero troppe, e prendo volentieri il pezzetti di pollo che le donne intorno a noi lanciano verso la nostra parte del piatto. Io e Clemente ci chiediamo come è possibile spiegare a chi non ha mai visto questa pratica, che le stiamo ringraziando per questo gesto; che significa che ci stanno offrendo la parte migliore del pollo. Concordo con lui. È impossibile. Qui è tutto ottimo mentre lo mangi, è la fase della digestione a creare problemi. Saranno le cipolle, le spezie o il peperoncino chissà … Ore 15 ricomincia la seduta … ormai sono impegnata nel mio training autogeno, mi convinco che uscirò viva da quella tenda e che entro la serata sarò di nuovo a casa, e potrò attaccarmi alla dissetante bottiglia d’acqua che c’è in frigo. Non so ancora cosa mi aspetta. So solo che riprendo fiato quando alle 17.13 si chiudono ufficialmente i lavori e dopo i saluti di rito ci incamminiamo verso la macchina. O meglio verso il meccanico. Che fortunatamente ci dice che la macchina ora quanto meno cammina. E così ripartiamo, alla volta di Mbour. Ricominciano le montagne russe, sono preoccupata per il parabrezza danneggiato, ogni buca potrebbe essere l’ultima, ma non sarà quello a causarci ritardi sulla tabella di marcia. Cratere dopo cratere, deviazione dopo deviazione raggiungiamo la strada, ed è lì che il nostro mezzo di trasporto ci abbandona di nuovo. Sarà l’acqua, pensiamo, e in effetti dopo qualche tentativo la macchina riparte, consapevoli che ci saremmo dovuti fermare di nuovo prima che la macchina lo decidesse per noi. Quindi dopo circa un’ora, ripetiamo l’operazione, aspettiamo un quarto d’ora che la temperatura scenda, e ripartiamo. I nervi di Clemente sono messi a dura prova. Ma non saprei fare di meglio, quindi non gli chiedo di mettermi alla guida e kilometro dopo kilometro dopo quasi quattro ore di pellegrinaggio raggiungiamo finalmente la nostra Mecca.

1 commento:

Anonimo ha detto...

...ma questo non mi impedisce di riposare beatamente, data la mia proverbiale capacità di dormire in ogni posizione e situazione....
una menzione a chi te lo dice sempre .... fedo e paty